Non attaccamento e discernimento: tra mito e realtà

Ninfee by Francesca Romana Amori
Alessia
Insegnante di yoga, meditazione e mental coach

Viviamo in un tempo in cui il distacco viene spesso frainteso. Da un lato, temuto come freddezza emotiva, come una rinuncia che però sembra privarci di qualcosa di importante, dall’altro, idealizzato come una condizione virtuosa di totale non-attaccamento, quasi un disinteresse per il mondo e i suoi legami. Ma il vero distacco non è né l’uno né l’altro. 

È uno spazio di libertà interiore, in cui lasciamo andare ciò che non ci serve più o addirittura ci danneggia, senza paura, per far posto a ciò che è in armonia con i nostri veri desideri e benefico per il nostro cammino. Questa libertà interiore non implica una rinuncia forzata, ma piuttosto una consapevole capacità di discernere cosa arricchisce davvero la nostra vita e cosa invece la appesantisce inutilmente. Il distacco non significa allontanarsi dalla vita, ma viverla in modo più autentico, senza esserne schiavi.

Il cammino dello yoga

Patanjali nel Sutra II.7 spiega che il piacere porta all’attaccamento emozionale: l’esperienza del piacere genera desiderio (che non è il problema in sé) e questo può condurre a bramosia e schiavitù sensoriale (i veri “problemi”). Nel Sutra II.8, sottolinea che questi ultimi provocano dolore che, a sua volta, può sfociare in avversione e odio. L’attaccamento e l’avversione sono due facce della stessa medaglia e vincolano l’individuo in una prigione emotiva.

Il non attaccamento non è rifiuto del mondo, ma liberazione dalla schiavitù emotiva e materiale. Implica agire con responsabilità, senza essere agganciati alle aspettative o ai risultati. Il distacco conduce al discernimento, ovvero la capacità di vedere le cose per quello che sono, senza proiezioni mentali o meri interessi personali. Significa comprendere che le emozioni e le esperienze sono passeggere e che il loro valore non risiede nella loro permanenza, ma nell’insegnamento che ci offrono.

La (famosa) rinuncia non è un’imposizione, ma un’arte che si coltiva con il tempo.

Nei Sutra I,12-17, Patanjali descrive la pratica yogica e il distacco come strumenti per calmare la mente. La pratica, sottolinea, richiede dedizione, zelo, consapevolezza e impegno prolungato (un lavoro impegnativo, direi), mentre il distacco implica imparare ad agire senza bramosia. Questa distinzione è cruciale: il distacco non è apatia, ma piuttosto una comprensione profonda della realtà che permette di affrontare la vita con serenità e lucidità.

Nel nome della ricerca spirituale e della ricerca di equanimità, si è frainteso il significato di non attaccamento riducendolo alla repressione delle emozioni, alla negazione dell’esperienza sensoriale, al sacrificio condizionato all’ottenimento di qualcosa di presuntamente immateriale. Questo può causare uno stress eccessivo e innaturale sulla mente, sviluppando uno stato della personalità interiore privo di spontaneità e deformato. 

Se ci convinciamo che l’unica via per la saggezza sia quella dell’indifferenza del sentire, finiamo per costruire un muro tra noi e la vita stessa. Non è nell’insensibilità alla bellezza della primavera o nell’ignorare il dispiacere per un lutto che si raggiunge un intelletto stabile, perché in entrambi i casi siamo condizionati: nel primo dalla paura dell’attaccamento, nel secondo dal rifiuto della perdita. Ignorare piacere e dolore è solo un altro modo di essere incatenati, in questo caso, ad un altro schema esterno ritenuto virtuoso.

Il senso della vita

Equanimità non significa evitare il piacere o il dolore, ma non lasciare che questi ci dominino. 

L’attaccamento non si genera nell’esperienza in sé, ma nel bisogno che questa rimanga invariata. 

Il dolore non è solo nella sofferenza, ma soprattutto nella resistenza che vi opponiamo. 

Mi piace sottolineare quindi che il discernimento, il non attaccamento, avvengono con il tempo e secondo un procedimento di apprendimento, non solo didattico ma esperienziale. La tensione verso la giusta azione, se non accompagnata da un’esperienza autentica della propria essenza più profonda, è come un muro senza fondamenta: vacilla al primo vento e crolla in breve tempo.

Spesso si tralascia che nella tradizione  induista la rinuncia e il distacco non possono essere imposti prematuramente (salvo casi di “santità”), ma devono seguire i quattro sensi della vita, in quest’ordine:

  1. Dharma – la realizzazione dello studio, dell’educazione e del senso di giustizia. È il fondamento della vita etica e spirituale, la via per comprendere il proprio ruolo nel mondo e agire con rettitudine. Senza un dharma solido, ogni altra realizzazione rischia di essere priva di equilibrio e significato.
  2. Artha – la realizzazione della prosperità materiale e del benessere. Non si tratta solo di accumulare ricchezza, ma di garantirsi i mezzi per vivere con dignità, sostenere la famiglia e contribuire alla società. Il benessere materiale è un supporto per la crescita interiore, non un fine in sé.
  3. Kāma – la realizzazione del piacere, dell’amore e la soddisfazione dei sensi. Questo include non solo i piaceri fisici, ma anche le gioie dell’arte, della musica, della compagnia e delle relazioni umane. Vivere il piacere in modo consapevole e armonioso è parte del percorso verso la realizzazione.
  4. Mokṣa – la realizzazione della liberazione e del distacco dai sensi “mondani”. La meta ultima del cammino spirituale: la libertà dalla sofferenza e dagli attaccamenti, raggiunta non attraverso la fuga dal mondo, ma tramite la piena comprensione della sua natura effimera e interdipendente.
Non attaccamento e discernimento

Il vero distacco quindi è un processo naturale che avviene dopo che si sono vissute pienamente e consapevolmente le esperienze del mondo. Solo dopo aver integrato questi quattro aspetti si può giungere alla rinuncia autentica, che non è fuga, ma realizzazione.

Rinunciare senza avere prima vissuto significa reprimere, non trascendere. Perciò, quando ci sentiamo sopraffatti dalle nostre sofferenze, la domanda non dovrebbe essere: come posso liberarmene? La vera domanda è: posso vivere tutto questo senza che sia questo a definirmi?

Il distacco è un’arte sottile che ci permette di vivere con leggerezza, senza perdere intensità. Ci aiuta a comprendere che la vita è un flusso continuo di esperienze e che la nostra forza non sta nel cercare di fermarlo, ma nel danzare con esso.

E così, ogni giorno, possiamo ricordarci che la vera libertà non è nell’evitare il mondo, ma nel viverlo con un cuore leggero e una mente stabile.

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