La rotta per Arikamedu

Le relazioni tra Roma e l'India
GM Turi
Insegnante di lingua e cultura italiana a stranieri, curatore didattico della scuola Satkama Yoga.

Ovvero: i ginnosofisti, le vedove riarse e gli sciapodi di Taprobane

I romani erano gente concreta: costruivano le strade, in ventiquattro ore piantavano ponti di legno su grandi fiumi come il Reno per farci passare l’esercito, misuravano pendenze e angoli per portare l’acqua nelle città dalle montagne. DI gran lunga preferivano le commedie alle tragedie, che forse li avrebbero fatti riflettere un po’ troppo, e ancora meglio erano le satire, con il loro carico di comica crudeltà. Quando qualcuno gli si metteva di traverso non è che ci pensavano due volte, lo cancellavano dalla faccia della terra. Quelli che oggi fanno un gran piagnisteo per le varie attività imperialiste contemporanee, dovrebbero informarsi presso i cartaginesi cosa significava mettersi di traverso ai romani. Alla base di ogni loro etica c’era la ricchezza e la ricerca del guadagno, fosse questo a favore dello stato o dei privati cittadini. La rotta per Arikamedu fu uno dei modi.

Arikamedu, avamposto commerciale in India

Arikamedu fu il più importante avamposto commerciale romano in India. Probabilmente ci arrivarono per primi i greci, un po’ ispirati dalle intemperanze di Alessandro Magno & Co. e un po’, perlopiù, per avidità. I rischi che non si corrono per l’avidità… Gli scavi archeologici condotti in Arikamedu nel XX secolo hanno rivelato tracce di un’intensa attività mercantile: anfore romane, sigilli con iscrizioni latine e resti di abitazioni che suggeriscono la presenza di una comunità cosmopolita. È anche possibile che mercanti, navigatori e funzionari romani abbiano vissuto qui, almeno a periodi, a contatto con le popolazioni locali, scambiando sì le merci, ma prima o poi anche qualche idea. 

La rotta per Arikamedu

L’imbarco per Arikamedu avveniva sul Nilo, a Canopo, città adiacente al grande porto di Alessandria d’Egitto. Da lì le navi risalivano il fiume fino a Copto, dove le merci erano caricate sui cammelli e trasportate via terra fino al porto di Berenice, sul Mar Rosso. Da Berenice incominciava la traversata, per la quale le navi salpavano all’inizio dell’estate, in modo da avere favorevole il monsone di sud-ovest. Il primo scalo si faceva a Okelis, sulla costa occidentale dell’Arabia poi, in una quarantina di giorni, si raggiungeva il porto di Muziris, sulla costa del Kerala. Costeggiando l’India verso sud si poteva raggiungere l’isola di Taprobane (Sri Lanka) e risalendo la costa orientale dell’India si raggiungeva finalmente l’avamposto di Arikamedu. Il tutto, pare, seguendo il vento sputandosi sul dito, nonostante il meccanismo di Antikythira possa lasciare qualche dubbio in merito.
Il viaggio di ritorno si intraprendeva al principio di dicembre, o al massimo di gennaio, per avere favorevole il monsone di nord-est.

Gli sciapodi di Taprobane e altre meraviglie indiane

Se ancora Plinio il Vecchio nei primi decenni dopo Cristo se ne andava in giro raccontando che a Taprobane vivevano gli sciapodi, umanoidi dotati di un solo piede enorme con il quale compivano salti enormi, ma anche tanto grande da poter essere usato come riparo dal sole nei meriggi di fuoco equatoriali, c’è qualcosa nelle nostre interpretazioni dei romani che non va. Come già detto, i romani erano gente pragmatica. In più avevano conquistato quasi tutte le terre allora conosciute, sapevano di prima mano cosa c’era in giro per il mondo. Va bene i mostri marini. Se capitava di incontrare un capodoglio lungo la rotta per Arikamedu, gli occhi avranno rincorso le fantasie più sfrenate. Ma le formiche giganti (grandi come una volpe) che estraevano l’oro? Gli uomini senza testa con i volti sul petto? Forse quegli zoticoni provinciali dei monaci medievali potevano crederci, non penso gli intellettuali cosmopoliti dell’impero romano. Quindi, non resterebbe che accettare che anche un naturalista come Plinio il Vecchio si concedesse divagazioni letterarie. D’altra parte il metodo scientifico sarebbe arrivato solo sedici secoli più tardi ed è senz’altro un vizio di prospettiva attribuire agli antichi delle credenze solo perché le enunciavano. Anche se le enunciavano facendo finta di crederci. Avevano il loro pubblico di lettori da soddisfare.

Il rito delle sati, le vedove riarse

Diversamente quello delle sati, la pratica di origine vedica in base alla quale la vedova si immolava sulla pira funeraria del marito, doveva essere un rituale che i marinai e i mercanti (e anche gli storici al seguito di Alessandro Magno) avevano visto di persona e che descrivevano inorriditi. Sia i greci sia, soprattutto, i romani avevano leggi severe per le donne adultere, ma non le avrebbero mai lapidate né si sarebbero spinti a immaginare che la fedeltà al marito contemplasse una tale crudeltà assoluta. Fedeltà assoluta della donna al marito e il suo ingresso immediato nel regno celeste insieme al defunto. Solo i teorizzatori di una malignità cosmica come la legge del karma potevano pensare a una soluzione del genere, gente con i piedi per aria e la testa piantata nella terra per qualche esibizione di prestigio yogico

Al contrario il mito di Sati racconta di un’immensa santificazione del territorio ancora oggi perseguibile con un pellegrinaggio negli shakta pithas.

I ginnosofisti, i filosofi vestiti di cielo

Tra le figure che maggiormente affascinarono il mondo classico vi furono i ginnosofisti, termine greco che significa “filosofi nudi”, i quali conducevano una vita di estrema austerità, meditando nella solitudine delle foreste o ai margini della civiltà. Alessandro Magno, durante la sua spedizione in India nel IV secolo a.C., ne incontrò alcuni e tutta la sua corte di ruvidi macedoni ne rimase colpita. Lo stesso condottiero ne scrisse in una lettera al maestro Aristotele, documento oggi perduto ma che ancora Cicerone poteva leggere:

“Credo ci sia da mantenere una certa distanza quando ci si avvicina per studiare la tela del mio regno, non volendo che questa ci si appiccichi al naso o, peggio, nel caso si sia piccole creature, ci invischi per poi soffocarci. Di che morte poi! Abbozzolati nel muco di un nemico, appesi come mummie di insetti nella dispensa di un ragno. La distanza sufficiente è soggettiva e da quantificare, ma è un po’ come spogliarsi, levarsi quegli stracci appoggiati alle pudende, quegli insulsi ritagli di tessuto ricuciti insieme per i quali ci saremmo offesi se qualcuno fino a poco prima ce li avesse sporcati. Ora, invece, sgualciti su una sedia a un passo da noi ci lasciano quasi apatici. [lacuna] Cose simili non lasciano indifferenti. Sarebbe allora meglio circolare ignudi come i monaci cielovestiti d’India? Certo si eviterebbero alcune rogne dovute alle false appartenenze. Però dismettere gli abiti è rischioso. E anche dare inizio al processo di distanziamento. E si potrebbe fare anche la nota fine della cipolla, che strato dopo strato e dopo tante lacrime si riduce a un soffritto oppure a niente. Lacrime necessarie, d’altra parte. Il dolore infatti, come la distanza, purifica e acuisce le facoltà di discernimento. [lacuna] Così qualsiasi vocazione, ogni scelta, tende con il tempo a diventare abitudine, le strutture si portano dietro i significati che gli abbiamo attribuito, e così gli uomini diventano dei ruoli. Forse lo stesso non accade con gli astri dei savi ginnosofisti vestiti di cielo, che dopo molte lune e tanti soli sapranno ormai per certo quale costellazione indosseranno stanotte? Così anche la nudità finisce per essere veste”.

Di nuovo Arikamedu e le disgrazie della burocrazia contemporanea

Nel 2004, in una conferenza organizzata congiuntamente dall’Amministrazione di Pondicherry e dall’Ambasciata d’Italia, i governi decisero di collaborare per la conservazione del sito. Fu proposta una candidatura per l’inserimento nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO. Si decise inoltre di effettuare nuovi scavi e di creare un museo in loco, tuttavia vent’anni dopo questo annuncio Arikamedu è del tutto negletta. Ciononostante, qualcuno molto sciocco o molto lungimirante ha già installato da tempo un ristorante appena fuori dall’area archeologica. Sull’insegna ha pensato bene di farci scrivere we cook, you pay.

#

Le relazioni tra Roma e l’India alla luce delle più recenti indagini è un libro-articolo di Paolo Daffinà del 1995 che fa il punto della situazione sulle conoscenze e le relazioni tra il mondo classico e l’India. Per quanto datato, i contenuti dell’articolo restano a oggi invariati.

Instagram

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Instagram