La kamikaze e altri racconti del passaggio

La kamikaze e altri racconti del passaggio
GM Turi
Insegnante di lingua e cultura italiana a stranieri, curatore didattico della scuola Satkama Yoga.
La kamikaze e altri racconti del passaggio

La scritta era comparsa sul muro di un casamento in via dei Cadetti al numero 5, nel centro della città. Come ci fossero arrivati restava mistero, su un muro laterale bianco a circa sette metri di altezza e altrettanti metri dal tetto. Infatti la scritta sbilenca mostrava le difficoltà della realizzazione. Ma in qualche modo c’erano arrivati. Non certo dal basso che non si montano e smontano le impalcature nel corso di una nottata. Più certamente calandosi dal tetto con qualche sistema di ancoraggi e corde di quelli in dotazione ai pompieri. O ai lavavetri dei grattacieli, magari.

In ogni caso l’avviso si vedeva in chiaro dai marciapiedi intorno e il primo giorno molti occhi si erano sollevati per leggerlo. Molte persone, soprattutto i giovani liceali e gli universitari, si erano fermati per rileggere e riflettere, immagino, su quel messaggio che sembrava piovuto dal cielo, anche se si era impresso sul muro di cemento di un palazzo. A loro, più di tutti noi abituati alle dinamiche dei videogiochi, la scritta doveva sembrare un segno per l’attraversamento di un portale, per uscire dal livello in cui si trovavano e passare a quello superiore.

Il secondo giorno qualcuno passava e scuoteva la testa, per l’inefficienza degli uffici comunali preposti al decoro che non avevano ancora cancellato quello scarabocchio. Roba da matti! Una città che si sgretola ammucchiandosi, bizantina o levantina che sia, e ancora non basta, nessun intervento, l’indifferenza delle istituzioni, come vivessero in esilio quegli impiegati e quei politici che dovrebbero precipitarsi sul luogo non appena un intonaco si scrosta.

Il terzo giorno la scritta era entrata nei contorni del paesaggio urbano, sopra gli strati delle epoche umane, cristiane e pagane, e non ci faceva caso più quasi nessuno. Forse ero rimasto l’unico a esserne impressionato ogni volta che ci passavo accanto. Una scritta e di fianco il graffito di una kamikaze con il telecomando in mano: NON È UN PIANETA. È UNA TOMBA.

La monaca

Morivamo ogni giorno in comunione con un dio giustiziato e risorto. Che si fosse lasciato flagellare e insultare e inchiodare su una croce era il mistero su cui maceravamo i nostri impulsi di carne. La stessa carne per cui ci diamo così pena e che saziamo di piaceri e dolori, e proprio questa carne che consideriamo noi stessi e che è simbolo e vessillo delle nostre scadenze e condanne. Se lui si era piegato a tanto, il nostro sacrificio diventava un gesto di ossequio, l’inchino di prassi a un sovrano per ciò che è deciso da sempre: che questo corpo che ripulisco e curo sarà ossidato dai vermi, sarà corroso come un ferro dalla ruggine.

Il coretto odorava di legno. D’inverno l’umido ne impregnava i sedili e il legno odorava di muffa. Verdi diventavano gli interstizi e il legno si ammorbidiva. D’estate seccava e le muffe diventavano croste che lasciavano polvere grigiastra sotto le unghie. Ce le infilavo se mi prendeva il sonno nel ritmo monotòno del rosario. Le crepe rilasciavano schegge che si incarnivano come piccoli chiodi e mi svegliavano e tornavo a cantilenare il salmo o l’O povertà beata! della fondatrice o l’Ave Maria. Strappavo le schegge dalla carne e piccole gocce di sangue intrise di ceneri e di muffa mi incorniciavano le punte delle dita. Sangue del sacrificio, cenere che sono, muffa che è il mondo di fuori dai muri del convento.

Il nostro chiostro era una pezza di campo. L’acqua si prendeva alla cisterna vecchia dietro l’infermeria, scendeva chiara e fredda dal monte. Ci cucinavamo quel poco, ci lavavamo. Io e sorella Francina ne coglievamo dei secchi per bagnarci le rose del giardino, d’estate ogni giorno. In inverno la natura ha il suo corso e il roseto resta rigido e spoglio. Nel chiostro c’è l’erba o la neve oppure del fango. Lo lasciavamo al suo tempo, come il cuore quando Dio storna il suo sguardo, e pregavamo e aspettavamo e chiedevamo che la Sua bontà tornasse a salvarci.

Si aprivano a fine inverno le viole odorate, poi i bulbi piantati in autunno si illuminavano di gigli e insieme i boccioli di rosa facevano scoppiare i rami del roseto. Certi anni le rose hanno precorso i gigli. Avevamo disposto il roseto, il nostro amore per Dio, grande al centro del chiostro, le viole in piccole aiole e i gigli ai bordi del campo. Purezza che protegge l’umiltà che protegge l’amore per Dio.

Gli orti di guerra

In un fazzoletto di terra del giardinetto condominiale negli anni ’70 i miei nonni tenevano ancora un orto, separato da quello degli altri condomini delle case dei sottufficiali dell’esercito da una bassa rete verde di plastica, e ci coltivavano i pomodori, le zucchine, le patate. Ultimo atto della civiltà contadina e memorandum degli orti di guerra del 1941, in loro gioventù violenta. Quando si perseguiva l’autarchia dopo l’entrata in guerra e la scarsezza di materie prime in territorio nazionale impose requisizioni ridicole di pneumatici, al fine di munire l’esercito di ruote, e poi di cancellate e inferriate per sopperire al metallo che mancava per gli armamenti, e che invece arrugginirono dentro i magazzini dello sfacelo patrio.

Quel fazzoletto di terra è adesso coltivato a fiori ornamentali, inutili. Davanti alla casa da tempo c’è una Coop e i pomodori, le gonfie palle rosse senza gusto, si comprano là, insieme a tutto il resto.

Poco prima delle vacanze d’estate il grande susino che stava nel campo dietro la casa si riempiva dei suoi frutti acerbi, che a Bologna chiamavamo rusticani. Io e la nonna andavamo a raccoglierne, erano aspri, ci piacevano tanto. La nonna in casa indossava spesso una sopravveste a fiori colorati, faceva già caldo, e quando rientravamo lei odorava di sudore. Sotto le sue ascelle il tessuto floreale si scuriva di aloni bagnati e la nonna non si depilava. Quel campo è scomparso, distrutto dal piano urbanistico comunale insieme a tutti gli altri prati che un tempo si chiamavano “i prati di Caprara”, dal nome della famiglia nobiliare che li aveva posseduti, e che furono a lungo un campo di addestramento militare, dove anche l’esercito di Bonaparte aveva manovrato nel 1805, in uno dei suoi andirivieni su e giù per la penisola, in cerca di stragi e di vanto.

Mio padre raccontava che da piccolo, prima che si edificasse l’ospedale, tutto intorno a quelle case bianche e basse c’erano i prati. Dove i bambini si perdevano d’estate in giochi senza fine e non andavano al mare. Non c’erano i soldi. In casa i nonni avevano un mangiadischi rosso dove ascoltavo Il ragazzo della via Gluk di Celentano e pensavo a quel bambino in pantaloni corti, mio padre, e alla distruzione dei campi e degli alberi e dei boschi per farne strade e palazzi di asfalto e di cemento, percorsi e luoghi sterili del mortalismo borghese. Di una popolazione incrementata a dismisura per aumentare il flusso del profitto con la riproduzione incontrollata dei clienti. Tecniche, intelligenze e scienze asservite al guadagno. Disumanesimo.

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La kamikaze e altri racconti del passaggio è un libro di Edoardo Crisafulli pubblicato nel 2016. Sono venti racconti brevissimi che ci mostrano i tratti di un’esperienza di cui non vogliamo parlare, che esorcizziamo con battute di spirito, con gesti scaramantici. La scrittura è piana e minimalista, brillante e raffinata. Lo sguardo laico dello scrittore si posa senza retorica sull’impermanenza delle cose, sulla caducità della vita. Una lettura piacevolissima e catartica.

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La Biblioteca è una rassegna di consigli di lettura di autori italiani, ispirata al Myrióbiblos (“diecimila libri”) del patriarca Fozio I di Costantipoli, una raccolta di dotte schede di lettura-recensione di opere letterarie greche e bizantine pubblicata nell’855. Le dotte schede sono qui sostituite da brevi racconti impressionistici di spunto autobiografico con diretti rimandi non dichiarati al libro consigliato.

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