L’abitudine che ti cambia

l'abitudine che ti cambia

Il supremo mistero divino

Creare un cambiamento implica un processo di partecipazione attiva (impegno) e di responsabilità, anzitutto verso sé stesse (ma non solo), cioè creare l’abitudine che ti cambia cambiando le vecchie abitudini.

Ovviamente (ma forse non sempre) ci si deve impegnare a lavorare su sé stesse e non sugli altri o sul mondo, perché cambiare gli altri o il mondo è un principio autoritario che non può funzionare (le strutture del mondo vincono sulla presunzione umana senza neanche essere scalfite). Inoltre su sé stesse si può lavorare ogni giorno, ci si può misurare e valutare ogni giorno ecc.

Il proprio cambiamento inoltre è un modello e un esempio, non un “predicare bene e razzolare male”. Gira sui social una citazione attribuita a Ghandi: “be the change that you want to see in the world”. È una buona citazione, anche se non documentata. Documentata è invece un’altra frase, simile ma molto più complessa e interessante:

Non facciamo che riflettere il mondo. Tutte le tendenze del mondo esterno si riscontrano nei nostri corpi. Se potessimo cambiare, vedremmo che anche le tendenze del mondo esterno cambierebbero. Quando cambiamo la nostra natura, cambia anche l’attitudine del mondo nei nostri confronti. Questo è il supremo mistero divino. È una cosa meravigliosa, fonte della nostra felicità. Non dobbiamo aspettare di vedere ciò che fanno gli altri. [Indian Opinion, August 9, 1913. Ristampa in: The Collected Works of Mahatma Gandhi, vol. 13, ch. 153, p. 241]

In questa frase Gandhi sostiene che la trasformazione individuale va a braccetto con quella sociale perché tra individuo e società, tra individuo e mondo circostante, c’è una relazione di reciprocità. Il cambiamento che vogliamo non dobbiamo aspettarlo dagli altri ma attuarlo in prima persona. Solo in questo modo possiamo costruire il nostro futuro.

In senso etimologico la parola “futuro” infatti non esprime un tempo che verrà nebuloso e incerto, ma ciò che sarà. In questo senso lo intendiamo come ciò che sarà in seguito e a causa del nostro impegno per fare luce, non in senso divinatorio o propiziatorio.

Ma fare luce su cosa?

Il feticcio dell’illuminazione spirituale ci fa spesso dimenticare che la luce, in effetti, illumina e che perciò fa vedere (anche) le parti oscure che magari non abbiamo mai visto e/o che non vogliamo vedere. Perciò la luce, o per meglio dire la riflessione della luce, può anche far male, soprattutto se giudichiamo a priori cosa vogliamo o non vogliamo vedere e immaginiamo che il cambiamento sia un passaggio gratis per il Paese di Cuccagna. Spesso si parla di luce ma si cerca solo stordimento, non si è in grado di accettare che vedere magari la propria rabbia violenta, anche sotto le sembianze simboliche di demone o di lupo selvaggio, sia avere messo in luce sé stessi e vedersi riflessi, illuminati.

Una volta ammesso che vogliamo cambiare, che cosa dobbiamo cambiare? E come?

Il cambiamento agisce attraverso due canali fondamentali: intenzioni e abitudini.

Non possiamo lavorare sui desideri perché i desideri vanno e vengono, esulano dal nostro controllo, sono spesso influenzati, se non creati, dall’ambiente che ci circonda. Di conseguenza si rende necessario trovare un metodo di gestione e indirizzamento dei desideri nella direzione del cambiamento auspicato.

I desideri sono come bestie selvatiche, se le addomestichi le snaturi, se le lasci libere non le puoi controllare. Perciò ci rivolgiamo alle intenzioni, cioè al perché facciamo quello che facciamo. Quali sono i nostri scopi? Cosa vogliamo ottenere? Diamo una direzione ai nostri desideri!

Ammettiamo allora di voler cambiare le nostre intenzioni, cosa possiamo fare?

Possiamo cambiare con l’allenamento, come quando facciamo sport o una dieta. Il nostro allenamento sarà all’inizio “fare finta”. È stato dimostrato per esempio che il linguaggio del corpo può cambiare sia come gli altri ci percepiscono sia come noi ci sentiamo, anche con pochi minuti di “posa” al giorno. In altre parole, questo significa che l’abitudine diventa una seconda natura.

Possiamo cambiare curando lo spazio in cui viviamo. In Avot 6, 9, un testo mishnaico apocrifo è scritto:

Il rabbino Yosi ben Kisma disse: Una volta camminavo per strada e incontro uno che mi saluta e che io a mia volta saluto. Mi dice: “Maestro, da dove vieni?”. Gli rispondo: “Da una grande città di saggi e di scrivani”. Mi fa: “Maestro, ti andrebbe di vivere qui insieme a noi? Ti darò migliaia e migliaia di dinari d’oro, pietre preziose e perle”. Gli dico: “Anche se tu mi dessi tutto l’argento, tutto l’oro, tutte le pietre preziose e tutte le perle del mondo, non vivrei mai in un luogo senza Torah”.

Possiamo cambiare meditando e praticando yoga. È riconosciuto che la pratica fatta in certe quantità produce certi cambiamenti. Yogi Bhajan insistette spesso sull’importanza delle abitudini, fino a codificare una vera e propria tecnologia del cambiamento.

3 minuti di meditazione al giorno, influenzano il campo elettromagnetico, la circolazione e la stabilità del sangue.
11 minuti di meditazione al giorno, influenzano il sistema nervoso e il sistema ghiandolare.
22 minuti di meditazione al giorno, equilibrano le tre menti.
31 minuti di meditazione al giorno, permettono a ghiandole, respiro e concentrazione di influenzare le cellule e i ritmi cicardiani.
62 minuti di meditazione al giorno, agiscono sui neuroni.
2 ore e ½ di meditazione al giorno, coordinano la mente subconscia con la mente universale che la circonda.

40 giorni di sadhana, interrompono qualsiasi abitudine negativa che blocca in relazione al kriya o al mantra.
90 giorni di sadhana, instaurano una nuova abitudine in relazione al kriya o al mantra nelle menti consce e subconsce.
120 giorni di sadhana, convalidano la nuova abitudine cosciente in relazione al kriya o al mantra. Gli effetti positivi si integrano permanentemente con la psiche.
1000 giorni di sadhana, permettono di padroneggiare la nuova abitudine del subconscio. Indipendentemente dalle sfide a cui ci si potrà trovare davanti, la nuova abitudine sarà completamente al servizio.

La conoscenza è come un territorio da esplorare. Se conosciamo la strada, sappiamo dove andare. Se non la conosciamo, ci affidiamo alle mappe, pur decidendo noi come e a che velocità percorrere la strada. I testi sacri e la pratica yogica sono per l’elevazione spirituale come le mappe per i territori.

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