Ci sono momenti nella vita in cui sentiamo il bisogno di qualcosa di più profondo. Un senso di vuoto, una crisi personale o una fase di trasformazione possono spingerci a cercare risposte in percorsi spirituali e comunità che promettono crescita, sostegno e senso di appartenenza.
Il senso di appartenenza e il pericolo del conformismo
Il senso di appartenenza è un bisogno umano fondamentale, radicato nella nostra biologia e nella nostra storia evolutiva. Fin dall’infanzia, cerchiamo connessione e riconoscimento negli altri: la famiglia è il primo nucleo in cui sperimentiamo cosa significa “appartenere”. Crescendo, questo bisogno si estende alle amicizie, alla comunità, ai gruppi culturali e spirituali, perché sentirsi parte di qualcosa dà sicurezza, identità e significato. È anche parte di ciò che ci ha permesso di trionfare come specie.
Ma questo stesso bisogno può renderci vulnerabili. Quando il desiderio di essere accettati supera la nostra capacità di discernimento, rischiamo di aderire a dinamiche che non rispettano i nostri valori e purtroppo, spesso, neanche il nostro benessere.
Ci sono alcuni comportamenti tipici di chi sta entrando in una dinamica settaria:
- Allontanamento progressivo dagli affetti più cari
- Incapacità di prendere decisioni autonome e perdita del pensiero critico
- Venerazione per una persona
- Modifica delle abitudini alimentari
- Interruzione dei trattamenti medici o modifica improvvisa degli stessi, se in corso
- Cambiamento drastico del modo di vestire
- Risposte vaghe ed evasive a domande inerenti la sua nuova vita
Se qualcuno che ti è caro si comporta nei modi suddetti, sappi che potrebbe essere entrato in contatto con un culto distruttivo. Puoi chiedere informazioni o sostegno anche a La pulce nell’orecchio, associazione di sensibilizzazione e denuncia di ambienti settari.
Come si costruisce un salutare senso di appartenenza?
- Connessione autentica – Il senso di appartenenza non deriva solo dalla vicinanza fisica, ma dalla qualità delle relazioni. Ci sentiamo davvero parte di un gruppo quando possiamo essere noi stessi senza paura di giudizio o di esclusione.
- Valori condivisi – Le comunità forti si basano su principi comuni. Quando troviamo persone che condividono i nostri valori, il legame diventa più profondo e duraturo.
- Esperienze aggreganti – Affrontare sfide, costruire ricordi e superare momenti difficili insieme rafforza il senso di unione. Questo è il motivo per cui i gruppi che vivono esperienze intense tendono a essere molto coesi.
- Riconoscimento e accettazione – Sentirsi visti e accettati per ciò che siamo, con i nostri pregi e le nostre vulnerabilità, è essenziale per sviluppare un senso di appartenenza autentico e sano.
Tuttavia, quando il bisogno di appartenenza diventa più forte della nostra capacità di discernimento, possiamo cadere nel conformismo o accettare dinamiche per noi anomale pur di non sentirci esclusi.
Il love bombing
Non sono sicuramente la prima a scrivere del love bombing, quella tendenza all’estrema accoglienza e gentilezza per sollecitare l’emotività di una persona al fine di includerla, che sia in una relazione personale o di gruppo. “Noi siamo possiamo essere la tua famiglia”. “Non ho mai conosciuto nessuno come te”. “Fuori non ti capiscono, qui invece non devi neanche spiegarti”. “Farei qualsiasi cosa per te”. “Prendi un nome spirituale che ti guidi”.
Questa dinamica è tipica quando ci trova davanti a manipolazioni psicologiche, nel tentativo di far accogliere, progressivamente, una situazione o una relazione che normalmente, se avesse piena contezza di ciò lo aspetta, rifiuterebbe. Questa può essere anche una tipica dinamica delle comunità spirituali, le quali tutte tendono in vario grado a essere settarie: il mondo esterno diventa un luogo da cui difendersi; chi fa parte della comunità in genere pensa di essere tra i giusti, tra coloro che sanno come salvarsi dal declino sociale o tra gli unici che avranno accesso alla salvezza, a Dio, alla liberazione eccetera.
Queste sono dinamiche che nascono nella normalità dell’essere umano, dal gruppo di amici e amiche a quello parrocchiale, universitario, politico, dei vegani, dei culturisti e chi più ne ha più ne metta. Dal mio punto di vista quando c’è di mezzo la spiritualità, dovrebbe anche esserci un grado maggiore di onestà intellettuale e maturità emotiva, un qualcosa che troppo spesso o per malizia o per ignoranza manca.
Le domande necessarie
Nel corso del tempo mi sono fatta alcune domande in merito a:
- gruppi spirituali
- nomi spirituali
- consigli dietetici ai limiti dell’ortoressia
- dress code
Necessariamente in una comunità, come in una famiglia, affinché ci sia armonia vige un codice comportamentale; nella comunità, come in una famiglia, ti conoscono con un nome; nella comunità, come nella famiglia, ci sono abitudini culinari e di dress code. Ognuno si riconosce in quello che fa e mostra. Ma perché c’è questa tendenza delle comunità a volersi sostituire alla famiglia? Perché si credono migliori? Lo sono? O alla fine sono uguali perché anche loro, come in famiglia, chiedono di adeguarsi alle regole? O alla fine anche una conventicola anarchica è un gruppo fondamentalmente conformista?
Quando inizi un percorso spirituale è normale iniziare a vedere delle discrepanze con i parenti o con i vecchi amici, ma questo giustifica l’interruzione delle relazioni? Oppure una pratica spirituale dovrebbe insegnarti a stare nel mondo con tutte le sue differenze e coltivare con compassione le relazioni. Nelle relazioni accade la vera trasformazione. Certo, questo non significa dover rimanere in ambienti o con persone che valutiamo inadeguate alla nostra vita. Il buon senso, l’auto analisi e la libertà di scelta sono le chiavi per questi passaggi, non “il maestro dice”… Ve lo dice una che ci ha messo 8 anni per separarsi da un marito che le agiva violenza psicologica, 8 anni di “pensaci, il matrimonio è la più alta forma di yoga” e di “sei tu che non ti poni con la giusta attitudine, hai fatto la meditazione per ripulire il karma?”. E io, da brava bambina, ho provato a fare tutti i compiti per bene, ma poi mi sono ammalata di anoressia nervosa e, per fortuna, il mio sistema nervoso ha detto basta, così non va.
Il punto di vista della sistemica familiare
Dal punto di vista sistemico di Bert Hellinger, abbandonare la propria famiglia d’origine e cambiare nome può creare squilibri profondi nell’ordine del sistema familiare e nelle proprie radici identitarie, con conseguenze anche nelle generazioni a seguire. Il legame con la famiglia d’origine è imprescindibile, ognuno di noi è profondamente connesso alla propria famiglia anche quando la rifiuta. Se uno rinnega o si separa volontariamente dalla propria famiglia d’origine può involontariamente produrre una rottura nel cosiddetto “ordine dell’amore”, ovvero l’ordine delle relazioni familiari.
Uno dei principi fondamentali della sistemica famigliare è il principio dell’ordine: ogni individuo appartiene al proprio sistema in base a un ordine gerarchico (i genitori vengono prima dei figli, gli antenati prima delle generazioni più giovani, ecc.). Se una persona rifiuta la propria origine, tenta di escludere inconsciamente qualcosa che invece continua ad agire a livello profondo. Questo può portare a ripetere schemi familiari irrisolti, proprio perché non si è integrata e accettata la propria storia, anche se dolorosa.
Nome familiare e nome spirituale
Il nome è un simbolo del nostro posto nel sistema, è una traccia della nostra appartenenza al sistema familiare. Cambiare nome, soprattutto in un contesto spirituale o settario, può simboleggiare il tentativo di tagliare con il passato e con la propria storia familiare, avere una nuova direzione. Questo, tuttavia, può portare a una perdita di identità e a un senso di sradicamento, perché è come se ci si escludesse dal proprio sistema originario senza aver davvero risolto ciò che ci lega ad esso. Perché tanto, volenti o nolenti, è da lì che veniamo.
Quando una comunità spirituale o un gruppo chiuso propone l’idea che la vera famiglia sia quella nuova, non sta offrendo un’ulteriore appartenenza ma chiede una sostituzione. Secondo la visione sistemica, questo può essere molto pericoloso perché genera un vuoto profondo: la famiglia biologica resta comunque parte del nostro campo esistenziale e rinnegare questo legame può creare sensi di colpa inconsci, disorientamento e difficoltà nel radicarsi in generale.
Dal punto di vista sistemico, il vero percorso di crescita non è tagliare con la propria famiglia ma integrare la propria storia, accettare le proprie radici e sciogliere i nodi senza rinnegarli. Solo accogliendo chi siamo stati e da dove veniamo possiamo costruire un’identità autentica, senza bisogno di cancellare il passato per sentirci liberi.
L’ossessione per la purezza del corpo
La ricerca della purezza è un concetto profondamente radicato nelle tradizioni spirituali di tutto il mondo. Dal digiuno ascetico ai riti di purificazione, molte pratiche promettono un ritorno a uno stato incontaminato, libero dalle (presunte) impurità del corpo e della mente. Ma cosa accade quando questo desiderio di purificazione si trasforma in un’ossessione o quando la rinuncia non avviene in modo naturale?
Nel mondo spirituale contemporaneo l’idea di “ripulirsi” è spesso declinata in forme estreme: digiuni prolungati, rigidità alimentari, astinenza da esperienze “impure” e una spinta ossessiva verso un’ideale di perfezione comportamentale. Questo atteggiamento, anziché portare a una reale crescita interiore, rischia di sfociare in un rapporto malsano con il proprio corpo e anche con chi di questo corpo è artefice, sia la natura o Dio.
Il vero cammino interiore dovrebbe portare integrazione, non separazione; consapevolezza, non privazione. Il corpo non è qualcosa da superare, ma un tempio da abitare con rispetto e amore. La vita ci è stata data per viverla nel rispetto dell’universalità degli esseri viventi, non per mortificarla attraverso inutili e supponenti rinunce.
Il disprezzo per il proprio corpo
Uno degli aspetti più preoccupanti dell’ossessione per la purezza è infatti la svalutazione del corpo. Nel tentativo di “trascendere la materia”, molte tradizioni spirituali insegnano che il corpo è un ostacolo alla realizzazione interiore. Invece di pensare che il corpo è il tempio dell’anima, quindi da onorare, ci si ostina a ritenerlo un guscio impuro da domare o addirittura da mortificare con regole alimentari rigide, astinenze e lavaggi di ogni tipo.
Certo, qualcuno potrebbe controbattete che certi alimenti o bevande spingono a certi temperamenti, il che è senz’altro vero, ma io credo che il buon senso resti sempre la via. Un riferimento illuminante su questo tema è il libro La santa anoressia di Rudolph Bell, che analizza la vita di alcune mistiche medievali che praticavano digiuni prolungati e automortificazioni per raggiungere uno stato di purezza spirituale. Queste donne, considerate sante dalla Chiesa, vivevano in una condizione di privazione estrema, convinte che il corpo e la sua materialità fossero dei mali da mortificare per avvicinarsi a Dio.
Dal punto di vista psicologico, questi comportamenti presentano molte analogie con l’anoressia nervosa contemporanea: il controllo ossessivo del cibo, l’associazione di magrezza e purezza, la negazione dei bisogni corporei. Oggi, sebbene in forme diverse, ritroviamo la stessa dinamica in molte correnti spirituali che promuovono il digiuno come via per “ripulire il karma” o per raggiungere stati di coscienza superiori.
E c’è anche la purezza interiore…
La purezza ossessionante non è solo fisica, ma anche mentale ed emotiva: si chiede di pensare in modo positivo, di evitare rabbia e dubbi, di vestirsi certi modi per manifestare così lo stato della propria purezza interiore. Sono ovviamente pie illusioni, nel migliore dei casi, che l’abito non faccia il monaco è proverbiale. Nei casi più sfortunati questa simulazione dell’altro da sé può portare all’incapacità di accettare la propria umanità con tutte le sue imperfezioni, da cui possono conseguire anche comportamenti estremisti e criminosi.
Alcuni segnali di un atteggiamento ossessivo verso la purezza includono:
- sensazione di colpa se si infrangono le regole alimentari, di dress code o comportamentali del proprio percorso;
- rifiuto della quotidianità perché il mondo viene visto come “impuro” e pieno di distrazioni;
- giudizio severo verso sé stessi e gli altri, ritenendo chi non segue certe pratiche meno evoluto o meno spirituale.
Spiritualità vera e presunta
Se la spiritualità diventa un modo per negare il corpo e i suoi bisogni, allora forse non è più spiritualità ma solo un’altra forma di controllo. Una distorsione percettiva, l’adesione a uno schema-pensiero a cui abbiamo deciso di aderire, ma che non abbiamo creato da noi stessi sui nostri bisogni reali. In molti si avvicinano a gruppi settari non per reali spinte spirituali ma per momenti di crisi, passati i quali passa anche il bisogno di ricerca interiore: la fine di una relazione sentimentale, un licenziamento, difficoltà economiche… In questi casi, un onesto maestro spirituale dovrebbe in prima battuta rimandare a uno psicologo e non irretire chi si trova in difficoltà o in un momento di debolezza.
Purtroppo invece quando manca consapevolezza di sé (e può succedere a tutti, non è una colpa), si rischia di trovarsi irretiti in dinamiche che non solo non ci aiutano a uscire dalla crisi ma rischiano anzi di acutizzarla o di crearci nuovi e più pericolosi problemi. Il cosiddetto “triangolo drammatico” di Kapman è un modello psicologico che descrive uno schema di relazionale disfunzionale in cui gli individui coinvolti tendono a ricoprire i ruoli specifici di vittima, persecutore e salvatore. Chi entra in una setta può facilmente trovarsi coinvolto in questo tipo di dinamica relazione, anche laddove mancasse uno dei ruoli (il salvatore) e anche se i ruoli possono alternarsi in relazione ad altre persone (la vittima diventa il persecutore di qualcun altro).
Se credi che qualcuno che conosci potrebbe essere entrato in contatto con un culto distruttivo, puoi chiedere informazioni o sostegno a La pulce nell’orecchio, associazione di sensibilizzazione e denuncia di ambienti settari.
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