Negli ultimi secoli è cresciuta l’idea che ogni esperienza che la vita può offrire è presente nei livelli superficiali dell’esistenza e che perciò è inutile aspirare a qualcosa che può trovarsi più in profondità delle apparenze e della materialità. Quando la visione che l’essere umano ha di sé stesso diventa unilaterale, questi è preso dall’influenza vincolante del mondo fenomenico e tende a perdere stabilità e comincia a soffrire.
È un dolore sottile, spesso silenzioso, che si manifesta in una sensazione di vacuità anche quando in apparenza si ha tutto.
Ma la realtà è un’immagine illusoria di ciò che c’è, che per ognuno può essere simile ma mai identica. Questa illusione discrimina e suddivide gli uomini per stati (o strati…) di coscienza e lega ciascuno ai limiti del proprio stato. Solo la conoscenza, intesa come contatto con il proprio sé, è in grado di infrangere i confini che ciascuno di noi si impone inconsapevolmente, facendo così evolvere la coscienza verso i livelli più elevati.
Evolvere non significa “diventare qualcuno” ma riconoscere chi siamo al di là dei condizionamenti, dei ruoli, delle maschere. Quando cominciamo a osservarci cercando di andare oltre le tendenze emotive e sensoriali, scopriamo che c’è molto più da disimparare che da imparare.
La Bhagavadgītā è un testo di enorme valore non solo spirituale ma anche pratico, è un manuale di consapevolezza. Offre una filosofia dell’azione adatta a chi desidera trasformare la vita quotidiana in un mezzo di evoluzione. I suoi versi ci insegnano a conciliare due poli che sembrano spesso in conflitto: i doveri che la vita ci affida e il desiderio profondo di crescere interiormente e liberarcene.
Questo testo antico parla al cuore di chiunque abbia mai vissuto un momento di profonda indecisione, di chi si sia sentito spaccato in due tra ciò che “deve fare” e ciò che sente.
Chiunque abbia camminato nella nebbia del dubbio sa quanto sia importante avere una direzione. Non una regola rigida da seguire, ma una connessione interiore che ci guidi con autenticità.
Arjuna, il protagonista, è un guerriero. Ma soprattutto è un uomo in crisi, pronto sul campo di battaglia per combattere contro i propri parenti, la propria dinastia. Di fronte alla battaglia si ferma e si chiede: “Ha senso tutto questo?”.
Il bisogno di fermarsi quando sembra il momento di agire
La sua crisi è quella di tutti noi: siamo pronti, abbiamo l’arco in mano, ma qualcosa dentro ci blocca. La paura, il senso di colpa, la confusione. In questi momenti è facile cadere nell’inazione oppure rifugiarsi in mille giustificazioni. Ma non sempre fermarsi è segno di fallimento: a volte è l’inizio di una nuova consapevolezza.
Le parole che Krishna rivolge ad Arjuna non sono comandi, ma inviti a riconoscere la forza già presente in lui, a vedere oltre l’apparente sconfitta, a distinguere tra azione consapevole e reattività, tra l’agire per paura e l’agire per scelta.
La Bhagavadgītā ci mostra come il vero equilibrio interiore si raggiunga non evitando il conflitto, ma attraversandolo con il coraggio della consapevolezza. Non si tratta di eliminare le emozioni, ma di imparare a non esserne dominati. Nello yoga – e nella vita – l’equilibrio non è immobilità, ma presenza dinamica; non è indifferenza, ma coinvolgimento lucido.
Krishna ci insegna che l’azione libera nasce dal distacco, il quale non è freddezza e indifferenza ma libertà dal bisogno di controllarne il risultato. Un insegnamento prezioso in un mondo che ci spinge a “fare” costantemente dimenticando di essere.
Ripeto: L’azione libera nasce dal distacco, il quale in sé non è freddezza e indifferenza del sentire ma libertà dal bisogno di controllarne l’esito.
Essere nel mondo con consapevolezza significa accettare l’incertezza, muoversi tra le polarità con cuore saldo, accogliere la vita nella sua impermanenza.
Le difficoltà non spariscono, ma cambia il modo in cui ci relazioniamo ad esse. Diventano parte del nostro cammino, strumenti di trasformazione. Quante volte nella nostra ricerca spirituale abbiamo pensato che il dolore fosse un ostacolo? Che l’oscurità fosse qualcosa da eliminare? E invece proprio lì, nel cuore della sofferenza, possiamo trovare le radici della nostra forza. Non si tratta di glorificare la sofferenza, ma di non fuggirla. Di abitarla con dignità, con ascolto, e – quando e se possibile – con amore.
Ogni cosa è spirituale per chi lo sa
La Bhagavadgītā ci ricorda che ogni gesto, se fatto con presenza, può essere un atto spirituale. Anche le cose più quotidiane – una parola detta con cura, una scelta fatta con coerenza – possono diventare strumenti di evoluzione.
Ogni passaggio della Bhagavadgītā è un invito a ricordare chi siamo. E, nel farlo, a vivere pienamente, responsabilmente, con coraggio e compassione.
Arjuna, travolto dal conflitto interiore, si rivolge a Krishna con parole che riflettono la paralisi dell’anima quando è divisa tra intelletto e cuore:
“Le mie membra vengono meno e la mia bocca è arsa,
Il mio corpo trema e i capelli mi si rizzano.
L’arco mi sfugge di mano e anche la pelle brucia;
Sono incapace di stare in piedi e la mia mente sembra turbinare.” (Bhagavadgītā 2.29-30).
Questa descrizione rappresenta lo stato in cui il coordinamento tra corpo e mente si spezza, un sintomo della crisi che sorge quando il desiderio di agire è in conflitto con la paura delle conseguenze. Spesso, si vorrebbe distruggere il male senza affrontarne la vera origine. Ma ogni cosa nell’universo è interconnessa: un’onda dell’oceano dipende da tutte le altre. Per questo, prima di impegnarsi in un’azione, è saggio valutarne le conseguenze, anche se non è in nostro potere determinarle.
Arjuna si dibatte tra opposte valutazioni, arrivando a pensare che sarebbe meglio lasciarsi uccidere piuttosto che combattere contro la sua stessa stirpe. Il suo cuore è colmo di compassione, ma la sua mente è oppressa dal dolore.
Krishna, vedendolo esitante, lo scuote con parole ferme:
“Da dove ti è venuto, in questo momento inopportuno, questo comportamento biasimevole?
Estraneo a uomini onorati, che è causa di disgrazia e si oppone al cielo?
Non arrenderti alla viltà. Essa è indegna di te.
Scuoti di dosso questo oscuramento meschino.
Alzati distruttore di nemici.” (Bhagavadgītā 2.2-3).
Chi sono i nostri nemici?
I nemici, spesso però, non sono fuori di noi. Sono invece le nostre paure, le credenze limitanti, l’identificazione cieca con il passato.
Ma Arjuna, ancora prigioniero del dubbio, risponde:
“Sono sconfitto dal marchio della debolezza,
la mente confusa per quel che riguarda il Dharma, il mio cammino,
io ti prego, dimmi decisamente quel che è bene per me.
Io sono il tuo discepolo: Insegnami,
perché io ho preso rifugio in Te.” (Bhagavadgītā 2.7).
Quante volte ci siamo trovati nel cuore di un conflitto interiore simile a quello di Arjuna? L’incertezza ci avvolge, il nostro cammino non è chiaro, e ci sentiamo paralizzati. Proprio come Arjuna, possiamo sentirci indecisi, smarriti e incapaci di compiere il passo successivo. In questi momenti, il nostro “dharma”, il nostro dovere o scopo, sembra sfuggirci, come se fosse un obiettivo troppo lontano da raggiungere. Quando la mente è confusa, il cuore vacilla. La domanda di Arjuna è universale: Qual è la cosa giusta da fare?
E (Arjuna) continua:
“In verità io non vedo ciò che potrebbe dissipare il dolore che mi inaridisce i sensi.” (Bhagavadgītā 2.8),
e infine dichiara: “Io non combatterò.” (Bhagavadgītā 2.9).
La dichiarazione di Arjuna “Io non combatterò” non è solo una resa alla paura, ma un grido di angoscia e di stanchezza emotiva. Quante volte abbiamo pensato di rinunciare a causa di un dolore che ci sembra insopportabile? Quando siamo sopraffatti, sembra che ogni azione, ogni sforzo, non porti a nulla se non a un ulteriore fardello. Arjuna si sente incapace di andare avanti e ci ricorda che un dolore fisico e/o emotivo può annebbiarci la vista, rendendo difficile comprendere la via da percorrere.
Krishna, allora, gli ricorda l’impermanenza della vita e la necessità di compiere il proprio dovere:
“Se consideri il tuo dharma personale, non dovresti vacillare
perché non vi è nulla di meglio che compiere il proprio dharma.” (Bhagavadgītā 2.31).
Oltre i dubbi: ritornare a sé stessi
Krishna invita Arjuna a ricordare che il suo cammino è unico e che il suo dovere è, in fondo, l’unica via che può portarlo alla realizzazione. Quando siamo nel dubbio, tornare al nostro scopo, alla nostra missione personale, può aiutarci a dissipare le nebbie del pensiero. Spesso, quando ci sentiamo persi, è perché ci siamo dimenticati di ciò che è più profondo e autentico per noi. La connessione con il nostro “dharma” ci aiuta a ridare senso anche ai momenti di sofferenza.
E Krishna aggiunge:
“Ti ho risposto alla comprensione nei termini della conoscenza;
ora ascoltalo nei termini dello yoga.
Una volta che il tuo intelletto sarà stabilizzato mediante lo yoga,
tu potrai gettare via l’influsso vincolante dell’azione.” (Bhagavadgītā )
E dice:
“Nello yoga nessuno sforzo va perduto.” (Bhagavadgītā 2.39-40).
La conoscenza da sola non è sufficiente: sono l’esperienza diretta e la stabilità interiore che ci liberano dalle influenze distruttive delle emozioni e dei desideri (ripeto: dalle influenze distruttive, solo da quelle). Lo yoga, quindi, non è soltanto una ginnastica ma è la chiave per radicare la nostra mente e il nostro cuore nella realizzazione profonda.
Questo insegnamento, d’altro canto, non è un invito a disinteressarsi dei risultati delle proprie azioni, ma a impegnarsi invece con dedizione nelle giuste azioni, sapendo che nulla è vano, senza essere ossessionati dai risultati:
“Tu hai il controllo dell’azione soltanto, mai dei suoi frutti.
Non vivere per i frutti dell’azione,
ma non avere attaccamento per l’inazione.” (Bhagavadgītā 2.47).
Krishna ci insegna un principio fondamentale: agire con impegno senza essere attaccati al risultato. Ogni volta che agiamo con una mente fissata sui frutti, rischiamo di perdere di vista l’essenza stessa dell’azione. La dedizione senza aspettative è la via per un’azione piena, non è limitata né dal successo né dall’insuccesso. Liberarsi dall’attaccamento ai risultati ci permette di essere più presenti nel qui e ora, di concentrarci sull’azione in sé, senza lasciarci distrarre dalle sue (eventuali) conseguenze.
L’essenza dello yoga
L’essenza dello yoga è proprio questa capacità di agire con equanimità:
“Stabilizzato nello yoga, o vincitore di ricchezza,
compi le azioni, avendo abbandonato l’attaccamento
ed essendo divenuto equanime nel successo e nell’insuccesso,
perché l’equilibrio della mente è chiamato yoga.” (Bhagavadgītā 2.48).
Equanimità non significa indifferenza, ma una capacità di accogliere la vita senza farsi travolgere dalle sue altalene emozionali. Quando siamo centrati, le difficoltà della vita non ci colpiscono come se fossero tragedie e i momenti di successo non ci gonfiano di orgoglio.
E ancora:
“Colui il cui intelletto è unito con il sé, si libera sia dal bene che dal male.
Perciò dedicati allo yoga. Yoga è abilità nell’azione.” (Bhagavadgītā 2.50).
Unire l’intelletto con il sé significa non separarsi mai dalla nostra essenza profonda. Non importa ciò che accade nel mondo esterno, ciò che conta è rimanere radicati nel nostro cuore, nel nostro scopo più grande. In questo stato di consapevolezza, ogni azione diventa una forma di yoga, un’espressione naturale di pace interiore.
Chi pratica lo yoga con costanza, dice Krishna, è colui che si libera dalla sofferenza:
“I saggi, il cui intelletto è realmente unito al sé,
avendo rinunciato ai frutti generati dalle loro azioni,
giungono a uno stato privo di sofferenza.” (Bhagavadgītā 2.51).
Liberati dalla sofferenza, distaccati dai risultati
La liberazione dalla sofferenza non viene dal controllo degli eventi esterni, ma dal controllo della nostra risposta interiore. Quando non siamo più schiavi dei risultati, possiamo affrontare qualsiasi situazione con una calma profonda, indipendentemente dall’esito.
Il distacco, dunque, non è disinteresse né passività, ma è la capacità di impegnarsi senza essere schiavi del risultato:
“Quando il tuo intelletto avrà superato la palude dell’illusione delle tue aspettative,
allora otterrai l’indifferenza per ciò che si è udito e ciò che ancora si deve udire.” (Bhagavadgītā 2.52).
Il distacco non è rifiuto della vita, ma la capacità di essere presenti senza farsi consumare dalle aspettative. Quando smettiamo di attaccarci rigidamente ai nostri desideri e alle nostre aspettative, la vita si svela nella sua naturale bellezza, senza paura del cambiamento.
E quando la mente sarà libera dalle illusioni e saldamente ancorata alla realtà, allora sarà in grado di raggiungere la vera conoscenza:
“Quando il tuo intelletto, confuso dalla conoscenza dottrinale,
sarà irremovibile e fermo nel sé,
allora tu giungerai allo yoga.” (Bhagavadgītā 2.53).
La vera conoscenza non è quella accumulata tramite studi e nozioni, ma quella che nasce dall’esperienza diretta del nostro sé. Quando la mente è libera da distrazioni e illusioni, raggiungiamo una comprensione che è oltre ogni teoria.
Il vero saggio è colui che rimane imperturbabile, ma ciò non significa diventare “sterili alla vita”, che cioè non si possa godere delle cose belle o dispiacersi per le cose brutte; significa invece non identificarsi con ciò che accade né con quanto ciò accade ci fa sentire, perché niente di tutto quello ci appartiene o ci definisce. Siamo costretti ad accogliere con responsabilità l’impermanenza dei fenomeni:
“Colui la cui mente è imperturbabile in mezzo ai dolori,
che è libero da brame in mezzo ai piaceri,
dal quale sono spariti attaccamento, paura, collera,
quegli si dice sia un saggio dall’intelletto stabile.” (Bhagavadgītā 2.56)
Il messaggio di Krishna ad Arjuna è un invito a tutti coloro che si trovano combattuti tra il dovere e la paura, tra il desiderio e l’incertezza. A coloro che per mancanza di stabilità interiore trovano rifugio nell’attaccamento verso ancore esterne: cibo, relazioni, comportamenti, pensieri, convinzioni.
Invita a trovare il nostro cammino attraverso la pratica del distacco e della consapevolezza. In ogni difficoltà, possiamo scegliere di agire senza attaccarci ai frutti delle nostre azioni, e nell’equanimità possiamo trovare vera libertà e vera pace. La leggerezza della consapevolezza è sempre a portata di mano, basta decidere di non farsi travolgere da ciò che accade intorno a noi. (O perlomeno provarci…)
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